LA MEDIAZIONE E IL PROCESSO, tra formalismo e risoluzione delle liti, in attesa delle Sezioni Unite sulla domanda riconvenzionale

La questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Roma con ordinanza del 13 giugno 2023 (R.G. n. 13193/2023), e assegnata alla definizione delle Sezioni Unite dal decreto della Prima Presidente della S.C. del 5 luglio 2023, conferma come sia sempre più consistente il convincimento che la mediazione civile, specie quella obbligatoria prevista per le materie elencate all’art. 5 del d.lgs. 28/2010, costituisca un istituto “sganciato” dalla potenziale lite governata dal Giudice statale, specie riguardo ai formalismi che spesso in molti ritengono attribuirgli.

Già da tempo, la dottrina considera la mediazione come un istituto a-giuridico o pre-giuridico ed anche la giurisprudenza ritiene che le domande di mediazione e giudiziale non possano essere completamente assimilate tra loro, posto, in particolare, che quella avanzata in mediazione, diversamente da quella posta a base della domanda giudiziale, non deve presentare la qualificazione giuridica dei fatti controversi. Differenza non di poco conto.

A ben vedere, la mediazione, perché funzioni e raggiunga lo scopo di conciliare individui in lite, deve prescindere dai formalismi del diritto, non soltanto di quelli propri del processo, ma anche –più in generale– del diritto sostanziale. Il diritto e il processo sono entrambi rivolti a stabilire chi ha torto e chi ha ragione; la mediazione prescinde completamente da questa contrapposizione.

Ed infatti il mediatore deve, innanzi tutto, adoperarsi al meglio per riattivare la comunicazione tra persone, inevitabilmente interrottasi con l’insorgere della lite; poi, aiutarle ad individuare i propri bisogni e le ragioni reali e profonde della controversia ed infine, facilitare la composizione amichevole del contrasto, individuando soluzioni che non devono necessariamente essere limitate allo specifico oggetto della controversia.

 A tal fine occorre rammentare i tre principali pregi propri della mediazione, strettamente correlati tra loro:

  1. la libertà delle persone dalle qualificazioni giuridiche: diversamente dal processo, esse hanno la possibilità di comporre i propri interessi nel modo che ritengono più opportuno;
  2. la possibilità di individuare una “soluzione su misura”, che soddisfi le speciali esigenze e i bisogni particolari di ciascuna;
  3. il controllo totale dei partecipanti sulla conclusione del procedimento di mediazione e, ovviamente, sul contenuto dell’eventuale accordo di conciliazione; senza la volontà degli aderenti è impossibile giungere alla risoluzione della controversia.

Alla luce di ciò, può affermarsi che la mediazione può risolvere un “conflitto a-giuridico o pre-giuridico” o un “conflitto degl’interessi”, che si pone temporalmente, in un momento anteriore rispetto al “conflitto delle pretese, nel senso che ciascuna parte pretende di avere per sé la protezione del diritto” -Carnelutti, voce «Componimento», in Enciclopedia Italiana, 1931-.

Tale corretta conclusione appare però astratta, se non erronea a molti, quando ci si chiede come possa un istituto regolato da norme di diritto non assumere una pluralità di profili “giuridici”, specie se alcuni degli atti nascenti assumono una rilevanza legale, perché idonei a produrre effetti per il diritto. Vedi, per esempio, il contenuto dell’art. 8, comma 2, primo periodo, d.lgs. 28/2010, ai sensi del quale “Dal momento in cui la comunicazione di cui al comma 1 [di proposizione della domanda giudiziale] perviene a conoscenza delle parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale e impedisce la decadenza per una sola volta”; od anche il precedente art. 5 che impone che in alcune materie l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Dalle considerazioni finora svolte, appaiono di difficile applicazione queste disposizioni, le quali prevedono che la domanda di mediazione, pur dovendo porsi su un piano “a-giuridico” o “pre-giuridico”, non deve, né ragionevolmente può, contenere tutti gli elementi propri di una domanda giudiziale benché, in caso di mancato accordo, deve successivamente essere valutata in una prospettiva strettamente giuridica. Ce lo rammenta ancora la giurisprudenza di merito, sul punto –da ultimo, la sentenza del Tribunale di Roma del 13 giugno 2023, n. 9450-, che ha chiarito come, ai sensi dell’art. 4 del D.lgs. n. 28/2010 (che richiede che la domanda di mediazione indichi le “ragioni della pretesa”, espressione che deve essere intesa nel senso della sufficienza dell’allegazione una situazione di fatto latamente ingiusta per la quale si prospetti una futura, possibile azione di merito, non risultando necessario inquadrare giuridicamente il fatto, atteso che l’istanza di mediazione, diversamente da quanto previsto per l’atto di citazione e il ricorso, ex artt. 163 e 414 c.p.c., non deve contenere anche l’indicazione degli “elementi di diritto” della pretesa vantata), gli accadimenti narrati nella domanda di mediazione, affinché possa essere soddisfatta la condizione di procedibilità, devono essere corrispondenti, “simmetrici” a quelli che saranno poi esposti in fase processuale.

In sintesi, l’istanza di mediazione deve ricalcare la futura domanda di merito, includendo tutti, e gli stessi, elementi fattuali che saranno introdotti nel futuro giudizio.

Ne discende, dunque, la necessità di una applicazione che superi il più possibile il formalismo, ponendo l’attenzione sugli elementi fondamentali ed essenziali degli atti, ed al fine di produrre gli effetti previsti dagli artt. 5 e 8 cit., sia sufficiente non soltanto che la domanda di mediazione indichi i fatti storici ritenuti pregiudizievoli e una sommaria spiegazione delle ragioni della propria pretesa, ma anche che tali indicazioni possano essere liberamente compiute dalla parte chiamata nel procedimento di mediazione.

Dunque, non appare logico ritenere sussistente un obbligo di un’espressa proposizione di una domanda riconvenzionale di mediazione, benché risulti corretto ritenere che sia stato esperito il tentativo di mediazione obbligatoria della parte chiamata in mediazione quando chieda, aderendo alla mediazione, di estendere l’oggetto del confronto comprendendo anche le proprie “contro pretese” che, giusta la previsione di cui all’art. 36 c.p.c., “dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione”.

E, ove la parte chiamata in mediazione ritenga che sussista un terzo chiamato a rispondere in suo luogo e anche questo rapporto rientri nell’ambito applicativo dell’art. 5 cit., ai concorrenti fini dell’assolvimento dell’onere di previo esperimento della mediazione obbligatoria per la chiamata del terzo ex art. 32 c.p.c. e di produzione degli effetti di interruzione della prescrizione e di impedimento della decadenza, è indispensabile che venga comunicata al terzo l’atto contenente gli elementi minimi previsti dall’art. 4 perché possa ritenersi sussistente una domanda di mediazione, ovvero la richiesta all’O.d.m di estendere, con l’adesione, il procedimento nei confronti del terzo.

Riflessioni che attendono il vaglio delle SS.UU. sulla pregiudiziale.

Avv. Marino Iannone

31 Agosto, 2023 no comments Procedimento e partecipazione , ,
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